lunedì 25 febbraio 2008

Il Trappeto di Vincenzo Mannacio
Monteleone Editore 1998
Vibo Valentia

“Il trappeto” è l’opera seconda dell’autore, dopo il libro di memorie del 1990 sulla sua lunga prigionia nei campi tedeschi in Polonia ed in Germania durante la seconda guerra mondiale. Ebbene, quest’opera seconda non è più, nella forma, un libro di memorie, nel senso che non racconta eventi ai quali l’autore abbia in qualche modo preso parte. Nella sostanza, però, se non è un libro di memorie, questo è il libro della memoria.
Infatti, mentre i campi di prigionia erano stati raccontati come un incidente dell’esistenza e, quindi, come un accidente della memoria, il trappeto è invece raccontato come la memoria vera e assoluta dell’autore e della sua famiglia, cioè come una raccolta di ricordi veri o verosimili e insieme di cose sentite raccontare da uomini più vecchi, ma digerite e immagazzinate come vissute. In altri termini, è la memoria che è identità e diventa mito. Anzi, alla luce di questo secondo libro, anche le memorie della prigionia assumono dei caratteri nuovi e meglio definiti, perché ora si delinea nitidamente il contesto socio-culturale ed economico, rispetto ai cui valori erano rappresentate e dimensionate le sofferenze della prigionia.
Malgrado questa caratteristica di libro della memoria e del mito, “Il trappeto” è però tecnicamente un romanzo, per di più un romanzo di lettura piacevole ed appassionante. E non c’è contraddizione in quello che dico. Nel romanzo, infatti, si sovrappongono e s’intrecciano almeno tre diversi tipi di narrazione, a mio parere amalgamati in maniera ad un tempo semplice e geniale, anche se non nuova.
La prima è la narrazione di una vicenda che non appartiene per nulla alla memoria, ma nasce totalmente dalla fantasia dell’autore: ed è essenzialmente per questo che il libro è un romanzo. Si tratta di una vicenda di amore, di odio, di soverchierie, di bonarietà, di interessi materiali, di pulsioni, di pentimenti, di nostalgia e di nostalgie, tutta costruita abilmente per i personaggi che dovevano (e sottolineo: dovevano) viverci dentro: più o meno come le tante opere teatrali e cinematografiche scritte apposta per essere interpretate da certi attori predeterminati. Io non so se l’autore abbia avuto piena consapevolezza della natura di questa operazione letteraria, ma credo di no, perché, altrimenti, il libro sarebbe segnato da un manierismo rituale, che invece, per fortuna, neppure traspare.
La seconda è la narrazione di un luogo, di un tempo, di un’economia, di una cultura: e qui, naturalmente, domina la memoria-identità-mito. E’ la cultura contadina che offre il suo grembo accogliente sia alle vicende sia ai personaggi. Anzi, una particolare cultura contadina, tipicamente mediterranea, fondata sull’economia dell’ulivo e dell’olio, e perciò magistralmente simboleggiata dal trappeto ad acqua che offre il titolo al romanzo. Il luogo delle vicende è il paese natale dell’autore ed il tempo è la fine dell’ottocento, quando l’autore non può averlo visto: ma quel trappeto, in quel paese, è rimasto attivo ed immutato anche oltre la metà del novecento, anche se la sua centralità economica è andata vieppiù sfumando, proprio perché è rimasto immutato anche in un’epoca in cui neppure qui da noi si poteva più far finta che non ci fosse mai stata una rivoluzione industriale. Mi piace aggiungere che quel trappeto ha fatto la storia di quel paese anche quando non c’era più, se è vero, com’è vero, che nella difesa o nella distruzione della sua centralità affondavano molte delle radici di 50 anni di lotte politiche di quel paese.
Nelle lentezze di quella cultura contadina, tutto sembrava equilibrato ed eternamente immutabile, per cui tutti gli eventi potevano essere facilmente collocati in due sole categorie: gli eventi, per così dire, normali, caratterizzati dalla loro corrispondenza con il canovaccio immutabile delle consuetudini e della memoria, e quelli eccezionali. I primi non avevano bisogno di spiegazioni di alcun tipo: si svolgevano così perché si erano svolti sempre così e, quindi, si dovevano svolgere così. Per gli altri, invece, ci voleva una ragione, una causa efficiente o, almeno, una giustificazione interpretativa. Nel romanzo, per esempio, è una sorta di perdita di senno o di buonsenso, che fa da ragione alle voglie trasgressive di Salvatore, mentre la sua prepotenza deriva da un abuso del suo status di figlio del patriarca. Ma, mentre la pseudo-perdita di senno di Salvatore è uno dei fulcri della vicenda, la vera perdita di senno di Giannina, che si estrinseca in modi e forme innocue, non fa storia e non ha bisogno di ragioni: nelle comunità contadine, i nevrotici e gli psicotici ci sono sempre stati, in ogni ceto, e sono stati sempre trattati con comprensione se non con affetto, come se la disgrazia derivasse direttamente dalla causa efficiente per antonomasia, cioè da Dio. Così, paradossalmente, Giannina è normale, tanto normale nella sua anormalità, che mai sarebbe potuta diventare la protagonista di un racconto: e resta quindi confinata ai margini della nostra storia, presente sopra tutto per la sua assenza. Un personaggio, certo, ma uno di quei personaggi che non fanno il romanzo, ma ne descrivono l’ambiente, come un fiume che scorre lentamente o le nuvole che si muovono anch’esse lentamente nel cielo.
La terza è la narrazione dei personaggi: un vero capolavoro, a mio modesto parere. Come già ho scritto nell’aletta del libro, i personaggi, pur essendo soggetti di vicende inventate, sembrano tuttavia realmente esistiti. E, se non sono realmente esistiti, certo potrebbero essere esistiti in quel luogo ed in quel tempo, o in un tempo successivo ancora ed eternamente uguale. In ogni caso, il loro disegno rivela la grandissima sensibilità dell’autore.
In particolare, alcuni di essi, visti con tenerezza paterna o con bonaria disapprovazione, sembrano evocare memorie personali, consce o inconsce, del vissuto dell’autore stesso, appena trasfigurate dal tempo trascorso e dal pudore personale o collettivo. Ciascuno sembra essere emblematico di una delle fasi dell’esperienza reale dell’autore e suggerirgli implicitamente le connotazioni dei personaggi contigui, visti e fotografati con molto affetto, ma senza alcuna tentazione dissacrante di psicoanalisi. Ed anche questa è una caratteristica della memoria che è identità e diventa mito.

Aldo Galati

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